Osservatorio Malattie Rare
Tumori, a Reggio Emilia un progetto per aiutare i pazienti a tornare al lavoro
Si chiama "Una Mano" ed è stato realizzato grazie al supporto dell'Azienda Sanitaria Locale di Reggio Emilia - IRCCS e della Fondazione Pietro Manodori, con la collaborazione di altri 15 enti locali
La crisi economica di quasi un decennio fa ha messo in ginocchio intere fasce di popolazione a livello mondiale, strappando il lavoro a tantissime persone. Negli anni, ricominciare non è stato facile: se tanti non ce l'hanno fatta, altri hanno stretto i denti e faticato per tornare a occupare una posizione lavorativa che permettesse loro una vita dignitosa. Il cancro agisce sul piano sociale come una crisi economica. Non opera solo demolendo l'organismo ma distrugge anche la vita sociale e professionale delle persone. Sono tanti i pazienti che devono rinunciare al lavoro e, con questo, all'opportunità di provvedere a se stessi. Fortunatamente, accanto ai ricercatori e ai medici, che operano per trovare e applicare nuove possibilità di diagnosi e di cura, ci sono figure che affiancano i malati e li aiutano a ritrovare il giusto posto in società.
Lo studio "Facilitate return to work of cancer survivors" indica fin dal titolo la volontà di impegnarsi in favore del reinserimento nel tessuto sociale di soggetti affetti da patologia tumorale. "Lo studio è nato in risposta a una precisa richiesta che venne fatta all'IRCCS di Reggio Emilia durante l'accreditamento europeo da parte dell'Organizzazione Europea degli Istituti sul Cancro (OECI)", spiega la dott.ssa Stefania Costi, dell'Arcispedale Santa Maria Nuova - IRCCS di Reggio Emilia. "In Italia, e nello specifico a Reggio Emilia, siamo molto bravi a curare i pazienti, ma la nostra competenza iperspecialistica fatica a trasferirsi sul territorio. Occorre creare dei ponti tra l'ospedale e il territorio, affinché le cure ricevute si traducano in una piena ripresa della vita e degli interessi del paziente. Abbiamo deciso, perciò, di concentrarci sul tema del ritorno al lavoro. Infatti, più della metà delle persone che oggi si ammalano di cancro sopravvivono oltre i 5 anni e circa la metà delle nuove diagnosi e più di un terzo dei lungo-sopravviventi sono persone in età lavorativa".
Sull'argomento, i dati in letteratura indicano tassi di rientro che oscillano dal 24 al 94% e risentono del contesto socio-sanitario, economico e culturale; una revisione sistematica degli studi svolti in Europa, condotta dai ricercatori dell'IRCCS di Reggio Emilia, ha evidenziato che in Europa Nord-Occidentale, a due anni di distanza dalla diagnosi, lavora una percentuale variabile tra il 39 e il 77% delle persone colpite da tumore. Se si considerano, però, solo gli individui che già lavoravano al momento della diagnosi, questa percentuale sale, variando dal 60 al 92%. "Questo lavoro di revisione ci ha permesso di capire che ci sono fattori come il genere, l'età e lo stato civile, oppure le caratteristiche stesse della mansione e vari fattori legati alla patologia, che influiscono sulla possibilità di rientrare al lavoro", continua Costi. "Tra le tante cose che abbiamo appreso, una su tutte è che questo fenomeno non è stato sufficientemente indagato nell'Europa Centrale e Meridionale e, quindi, anche in Italia. Pertanto, abbiamo realizzato uno studio epidemiologico nella provincia di Reggio Emilia, in collaborazione con il Registro Tumori, intervistando i pazienti in età lavorativa con nuova diagnosi di tumore e buona prognosi, e già occupati al momento della diagnosi".
Lo studio ha esaminato 266 persone, il 95% delle quali, in linea con i risultati dei Paesi dell'Europa Nord-Occidentale, è rientrato al lavoro. Tuttavia, circa la metà dei soggetti tornati operativi ha riscontrato difficoltà in fase di rientro, spesso riconducibili alle mansioni da svolgere, alle condizioni di salute non ancora ottimali, all'ambiente di lavoro non sempre di supporto e alla percezione di non avere più la stessa abilità lavorativa del periodo precedente la malattia. "A questo punto, ci siamo domandati in quale maniera, noi operatori sanitari, possiamo incidere su questo fenomeno, e abbiamo dato avvio a una seconda fase del progetto", spiega l'esperta. "Con il supporto finanziario dell'Azienda Sanitaria Locale di Reggio Emilia - IRCCS e della Fondazione Pietro Manodori, abbiamo sviluppato un progetto organizzativo per andare incontro a soggetti affetti da tumore non ancora in situazione di conclamata difficoltà e, insieme ad altri 15 enti locali, abbiamo presentato un progetto di rete socio-sanitaria che ha preso il nome di "Una Mano" e che è stato diffuso tra la cittadinanza e presso le associazioni di categoria che raggruppano i datori di lavoro".Obiettivo principale è quello di consentire il mantenimento del posto di lavoro a coloro che siano occupati al momento della diagnosi di tumore, mentre l'obiettivo secondario è quello di facilitare il reinserimento lavorativo per coloro che abbiano perduto il lavoro in seguito ad una diagnosi di cancro. I principali destinatari del progetto, quindi, sono soggetti con diagnosi di cancro, in età lavorativa e occupati al momento della diagnosi. "Dal punto di vista metodologico, il paziente target deve essere inviato allo snodo principale del progetto, cioè al servizio "Informa Salute", nato per aiutare pazienti, familiari e cittadini a ottenere informazioni sulla salute che siano scientificamente corrette, aggiornate, proposte in un linguaggio comprensibile e tarate sui bisogni dell'utente", precisa Costi. "Qui, il paziente incontra un'infermiera, formata in modo specifico anche in merito a "Una Mano", e viene sottoposto a un primo screening per captare i fattori di rischio per la perdita del lavoro e, se rientra nel progetto, si passa al secondo snodo e il paziente viene valutato dal terapista occupazionale".
Quella del terapista occupazionale è una figura nuova, che viene formata con laurea triennale all'interno della Facoltà di Medicina e Chirurgia. La valutazione del terapista occupazionale entra nel merito della tipologia di contratto, delle attività lavorative, della percezione che il paziente ha della propria abilità lavorativa residua e delle caratteristiche presenti sul luogo di lavoro che possono facilitare o impedire il reintegro. Se il paziente si classifica nella fascia di rischio lieve-moderato, il terapista occupazionale interviene con strategie di supporto, che possono prevedere anche uno o più sopralluoghi e colloqui con il datore di lavoro. Tali strategie possono consistere in interventi sull'individuo per insegnargli a svolgere le attività lavorative con modalità differenti, oppure nella fornitura di ausili, oppure di interventi sull'ambiente di lavoro, fino ad agire sull'organizzazione del lavoro, di concerto di con il datore. Se, invece, dopo opportuna valutazione medica, il paziente viene giudicato non idoneo a riprendere il lavoro svolto in precedenza, viene indirizzato alla rete sociale del progetto che, attraverso l'interfaccia con una fondazione con finalità educative e un consorzio di cooperative sociali, prende in carico questa persona, che può così ricevere informazioni di base sulle corrette modalità di redazione di un curriculum vitae, sulle tecniche di ricerca attiva del lavoro, sui profili professionali più ricercati in zona e sui corsi di riqualificazione a cui è possibile partecipare, così da creare un percorso guidato che riaccompagni la persona a un adeguato posto di lavoro.
"Da aprile 2018, mese in cui il progetto è stato lanciato, abbiamo arruolato 23 pazienti, troppo pochi rispetto alle reali potenzialità", conclude Costi. "Purtroppo, manca nel personale sanitario la piena consapevolezza che la salute non è solo assenza di malattia, ma è uno "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale", come ricorda anche l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Esiste una complessa interazione tra le condizioni di salute dell'individuo e i fattori ambientali e personali. Per questo motivo, abbiamo intrapreso numerose iniziative di formazione, sia all'interno dell'Azienda Sanitaria Locale, sia presso i medici di medicina generale, sia in vari contesti al di fuori dell'ospedale. Quello che stiamo chiedendo è un cambiamento culturale, un ampliamento di orizzonti, anche solo di pochi gradi: un cambiamento che, comunque, richiede tempo".